Mahābhārata
« ...ciò che qui c'è, lo si può trovare anche altrove;
ma ciò che qui non si trova, non esiste in nessun luogo »
IIl Mahābhārata ([mɐɦaːˈbʱaːrɐtɐ]; sanscrito: महाभारत, "La grande storia di Bhārata"), a volte chiamato semplicemente Bhārata, è uno dei più grandi poemi epici dell'India, insieme al Rāmāyaṇa, oltre ad uno dei testi sacri più importanti della religioneinduista.
La prima parte del Mahābhārata dichiara che fu il Deva Gaṇeśa, su richiesta di Vyāsa, a scrivere il poema sotto la sua dettatura; Gaṇeśa acconsentì, ma solo alla condizione che Vyāsa recitasse il poema ininterrottamente, senza alcuna pausa. Il saggio, allora, pose a propria volta una ulteriore condizione: Gaṇeśa avrebbe non solo dovuto scrivere, ma comprendere tutto ciò che udiva ancor prima di scriverlo. In questo modo Vyāsa avrebbe potuto riprendersi un poco dal suo continuo parlare, semplicemente recitando un verso difficile da capire. A questa situazione fa riferimento anche una delle storie che spiegano il modo in cui si ruppe la zanna sinistra di Gaṇeśa (elemento essenziale della sua iconografia): nella foga della scrittura il suo pennino si ruppe, ed egli si spezzò una zanna affinché la trascrizione potesse andare avanti senza interruzioni, così da permettergli di mantenere la parola data.
Il poema ha una struttura molto complessa, raccoglie numerose storie e leggende che costituiscono buona parte del ricco patrimonio mitologico indiano mentre la trama centrale occupa poco più di un quinto dell'opera.[1]
La trama centrale inizia circa 5200 anni fa,[3] quando entrambi i figli del re Shantanu e della regina Sathyavati, Chitrāngada e Vicitravirya, muoiono senza lasciare alcun erede. Allora, il re invitò il saggio Vyasa a fecondare le due vedove di suo figlio Vicitravirya: Ambika e Ambalika. Vyasa accettò, ma dato che l'ascesi lo aveva deturpato, il suo aspetto era poco gradevole.
Al momento del concepimento quindi, la prima delle vedove, Ambika, chiuse gli occhi per non vederlo. Vyasa predisse per tale motivo che suo figlio sarebbe nato cieco, sia fisicamente che spiritualmente.
La seconda vedova, Ambalika, resistette e non chiuse gli occhi, ma nonostante ciò non potette evitare di impallidire alla sua vista. Vyasa perciò predisse che suo figlio sarebbe nato itterico e che avrebbe vissuto poco.
Il tempo passò e i figli nacquero. Il primo, come predetto, nacque cieco e fu chiamato Dhritarashtra. Il secondo, itterico, fu chiamato Pandu.
Nonostante il figlio maggiore fosse Dhritarashtra, il trono venne ereditato da Pandu, a causa della cecità di Dhritarashtra.
Le due mogli di Pandu gli diedero cinque figli, avatar di altrettante divinità,[3] indicati con il patronimico Pandava. Dhritarashtra ebbe cento figli (non ciechi) indicati con il patronimico Kaurava.
Presto però i cugini si trovarono in contrasto: i Kaurava, figli dello zio primogenito, pretendevano il diritto al trono; i Pandava, figli del re Pandu, lo reclamavano ugualmente.
Questi contrasti continuarono ad inasprirsi, culminando, dopo esili, cospirazioni e varie traversie,[3] in una sanguinosa guerra che durò 18 giorni, portando a decidere sul campo di battaglia di Kurukshetra le sorti del regno di Hastinapura.
È durante questa guerra che viene ambientato il Bhagavad Gita (lett. Il canto del Beato), sicuramente il capitolo più popolare dell'opera, durante il quale Krishna, l'incarnazione Divina, assiste l'eroe Pandava Arjuna impartendogli una serie di insegnamenti volti a raggiungere la realizzazione spirituale.
La guerra viene infine vinta dai Pandava: sopravvivono solo otto guerrieri e qualche donna.[3] Yudhishthira, il fratello maggiore dei cinque Pandava, diventa il nuovo re, regnando per trentasei anni.
L'epopea termina con la morte di Krishna che conclude l'era del Dvapara Yuga e dà inizio all'ultima era, quella del Kali Yuga.
(sanscrito, sf.pl.; devanāgarī: भगवद्गीता, , "Canto del Divino" o "Canto dell' Adorabile" o, meno comunemente, Śrīmadbhagavadgītā; devanāgarī: श्रीमद्भगवद्गीता, il "Meraviglioso canto del Divino"[1]) è un poema di contenuto religioso di circa 700 versi (śloka) diviso in 18 canti (adhyāya), contenuto nel VI parvan del grande poema epico Mahābhārata.
La Bhagavadgītā ha valore di testo sacro, ed è divenuto nella storia tra i testi più popolari e amati tra i fedeli dell'Induismo.
L'episodio narrato nel poema si colloca nel momento in cui il virtuoso guerriero Arjuna - uno dei fratelli Pāṇḍava e prototipo dell'eroe - è in procinto di dare inizio alla battaglia di Kurukshetra (Kurukṣetra), che durerà 18 giorni, durante la quale si troverà a dover combattere e uccidere i membri della sua stessa famiglia, parenti, mentori e amici, facenti parte della fazione dei malvagi Kaurava, usurpatori del trono di Hastināpura. Di fronte a questa prospettiva drammatica, Arjuna si lascia prendere dallo sconforto e rifiuta di combattere.
Attraverso i 18 capitoli della Bhagavad Gītā, Krishna - incarnazione di Dio ed identificabile con l'Ātman, ovvero il proprio Sé più profondo ed immortale - indica ad Arjuna le tecniche mistiche (Yoga) per liberarsi definitivamente dal ciclo delle nascite e delle morti (saṃsāra) ed ottenere la liberazione (mokṣa).
Dopo una lunga analisi sui concetti di anima, religione, dharma e su altri concetti che formano il fondamento della filosofia indiana, ad Arjuna viene inoltre spiegata l'importanza dell'azione senza attaccamento al risultato e viene descritto il bhakti yoga, l'unione con Dio attraverso l'amore e la devozione come unico mezzo per raggiungere la perfezione e la mokṣa:
« Soltanto col servizio devozionale è possibile conoscere 'Me', il Signore Supremo, che cosa e Chi sono 'Io'. E colui che diviene pienamente cosciente di 'Me' grazie a questa devozione, entra rapidamente in Dio. »
(Bhagavad Gītā, XVIII, 55)
La Bhagavad Gītā è considerata l'essenza di tutta la spiritualità vedica indiana, poiché essa racchiude il senso delle 108 Upaniṣad, le quali a loro volta costituiscono un condensato dei 4 Veda. In essa vengono fusi i due poli della ricerca soggettiva umana: monismo e dualismo.
Diffusione e riferimenti [modifica]
Più che un astratto trattato di filosofia, la Gītā si può considerare un pratico manuale di vita, nel quale si affrontano tematiche spirituali di valenza universale; questo spiega la notevole diffusione del poema sacro anche in Occidente, in buona parte dovuta anche alla testimonianza di personaggi che basarono la propria vita sugli insegnamenti di questo Testo, tra i quali il Mahatma Gandhi:
« La mia vita non fu che una serie di tragedie esteriori, e se queste non hanno lasciato su di me nessuna traccia visibile, indelebile, è dovuto all'insegnamento della Bhagavad Gītā. »
(Mohandas Karamchand Gandhi)
Baghvad-gītā
(sanscrito, sf.pl.; devanāgarī: भगवद्गीता, , "Canto del Divino" o "Canto dell' Adorabile" o, meno comunemente, Śrīmadbhagavadgītā; devanāgarī: श्रीमद्भगवद्गीता, il "Meraviglioso canto del Divino"[1]) è un poema di contenuto religioso di circa 700 versi (śloka) diviso in 18 canti (adhyāya), contenuto nel VI parvan del grande poema epico Mahābhārata.
La Bhagavadgītā ha valore di testo sacro, ed è divenuto nella storia tra i testi più popolari e amati tra i fedeli dell'Induismo.
L'episodio narrato nel poema si colloca nel momento in cui il virtuoso guerriero Arjuna - uno dei fratelli Pāṇḍava e prototipo dell'eroe - è in procinto di dare inizio alla battaglia di Kurukshetra (Kurukṣetra), che durerà 18 giorni, durante la quale si troverà a dover combattere e uccidere i membri della sua stessa famiglia, parenti, mentori e amici, facenti parte della fazione dei malvagi Kaurava, usurpatori del trono di Hastināpura. Di fronte a questa prospettiva drammatica, Arjuna si lascia prendere dallo sconforto e rifiuta di combattere.
Attraverso i 18 capitoli della Bhagavad Gītā, Krishna - incarnazione di Dio ed identificabile con l'Ātman, ovvero il proprio Sé più profondo ed immortale - indica ad Arjuna le tecniche mistiche (Yoga) per liberarsi definitivamente dal ciclo delle nascite e delle morti (saṃsāra) ed ottenere la liberazione (mokṣa).
Dopo una lunga analisi sui concetti di anima, religione, dharma e su altri concetti che formano il fondamento della filosofia indiana, ad Arjuna viene inoltre spiegata l'importanza dell'azione senza attaccamento al risultato e viene descritto il bhakti yoga, l'unione con Dio attraverso l'amore e la devozione come unico mezzo per raggiungere la perfezione e la mokṣa:
« Soltanto col servizio devozionale è possibile conoscere 'Me', il Signore Supremo, che cosa e Chi sono 'Io'. E colui che diviene pienamente cosciente di 'Me' grazie a questa devozione, entra rapidamente in Dio. »
(Bhagavad Gītā, XVIII, 55)
La Bhagavad Gītā è considerata l'essenza di tutta la spiritualità vedica indiana, poiché essa racchiude il senso delle 108 Upaniṣad, le quali a loro volta costituiscono un condensato dei 4 Veda. In essa vengono fusi i due poli della ricerca soggettiva umana: monismo e dualismo.
Diffusione e riferimenti [modifica]
Più che un astratto trattato di filosofia, la Gītā si può considerare un pratico manuale di vita, nel quale si affrontano tematiche spirituali di valenza universale; questo spiega la notevole diffusione del poema sacro anche in Occidente, in buona parte dovuta anche alla testimonianza di personaggi che basarono la propria vita sugli insegnamenti di questo Testo, tra i quali il Mahatma Gandhi:
« La mia vita non fu che una serie di tragedie esteriori, e se queste non hanno lasciato su di me nessuna traccia visibile, indelebile, è dovuto all'insegnamento della Bhagavad Gītā. »
(Mohandas Karamchand Gandhi)
Ganesha
Presso la religione induista, Ganesha o Ganesh (Sanscrito गणेश IAST Gaṇeśa) è una delle rappresentazioni di Dio più conosciute e venerate; figlio primogenito di Shiva e Parvati, viene raffigurato con una testa di elefante provvista di una sola zanna, ventre pronunciato e quattro braccia, mentre cavalca o viene servito da un topo, suo veicolo. Spesso è rappresentato seduto, con una gamba sollevata da terra e ripiegata sull'altra, nella posizione dell'alitasana. Tipicamente, il suo nome è preceduto dal titolo di rispetto induista, Shri.
In termini generali, Ganesha è una divinità molto amata ed invocata, poiché è il Signore del buon auspicio che dona prosperità e fortuna, il Distruttore degli ostacoli di ordine materiale o spirituale; per questa ragione se ne invoca la grazia prima di iniziare una qualunque attività, come ad esempio un viaggio, un esame, un colloquio di lavoro, un affare, una cerimonia, o un qualsiasi evento importante. Per questo motivo è tradizione che tutte le sessioni di bhajan (canti devozionali) comincino con una invocazione a Ganesha, Signore del "buon inizio" dei canti.
Come ottenne una testa di elefante?
L'articolata mitologia induista presenta tante storie che spiegano in che modo Ganesha ottenne una testa di elefante; spesso l'origine di questo particolare attributo si trova negli stessi aneddoti che riguardano la sua nascita.
Nelle storie in questione, inoltre, si raccontano anche varie ragioni che rivelano l'origine dell'enorme popolarità del suo culto.
Decapitato e rianimato da Shiva
La storia più conosciuta è probabilmente quella tratta dallo Śiva Purana: una volta Madre Parvati volle fare un bagno nell'olio, per cui creò un ragazzo dalla farina di grano di cui si era cosparsa il corpo e gli chiese di fare la guardia davanti alla porta di casa, raccomandando di non far entrare in casa nessuno. In quel frangente Śiva tornò a casa e, trovando sulla porta uno sconosciuto che gli impediva di entrare, si arrabbiò e lo decapitò con il suo tridente. Parvati ne fu molto addolorata e Śiva, per consolarla, inviò le proprie schiere celesti (Gana) a trovare e prendere la testa di qualsiasi creatura avessero trovata addormentata con il capo rivolto a nord. Essi trovarono un elefante che dormiva in tal modo, e ne presero la testa; Shiva la attaccò al corpo del ragazzo, lo resuscitò e lo chiamò Ganapathi, o capo delle schiere celesti, concedendogli che chiunque lo adorasse prima di iniziare qualsiasi attività.
Ogni elemento del corpo di Ganesha ha una sua valenza ed un suo proprio significato:
- la testa d'elefante indica fedeltà, intelligenza e potere discriminante;
- il fatto che abbia una sola zanna (e l'altra spezzata) indica la capacità di superare ogni dualismo;
- le larghe orecchie denotano saggezza, capacità di ascolto e di riflessione sulle verità spirituali;
- la proboscide ricurva sta ad indicare le potenzialità intellettive, che si manifestano nella facoltà di discriminazione tra reale ed irreale;
- sulla fronte ha raffigurato il Tridente (simbolo di Shiva), che simboleggia il Tempo (passato, presente e futuro) ne attribuisce a Ganesha la padronanza;
- il ventre obeso è tale poiché contiene infiniti universi, rappresenta inoltre l'equanimità, la capacità di assimilare qualsiasi esperienza con sereno distacco, senza scomporsi minimamente;
- la gamba che poggia a terra e quella sollevata indicano l'atteggiamento che si dovrebbe assumere partecipando alla realtà materiale e a quella spirituale, ovvero la capacità di vivere nel mondo senza essere del mondo;
- le quattro braccia di Ganesha rappresentano i quattro attributi interiori del corpo sottile, ovvero: mente, intelletto, ego, coscienza condizionata;
- in una mano brandisce un'ascia, simbolo della recisione di tutti i desideri, apportatori di sofferenza;
- nella seconda mano stringe un lazo, simbolo della forza che lega il devoto all'eterna beatitudine del Sé;
- la terza mano, rivolta al devoto, è in un atto di benedizione (abhaya);
- la quarta mano tiene un fiore di loto (padma), che simboleggia la più alta meta dell'evoluzione umana.
Shiva
Fra gli dèi vedici Rudra occupa un posto particolare: più che far parte del pantheon sembra l'espressione di potenze demoniache, che popolano i luoghi selvaggi.[4] Rudra è imprevedibile, non ha amici fra gli altri dèi, è descritto come scuro di pelle, col ventre e il dorso rossi, i capelli raccolti in trecce. Anche nei successivi Brāhmaṇa, Rudra continua a conservare quest'aspetto estremo: errabondo, è escluso dal sacrificio e le offerte a lui sono quelle che si gettano per terra (Śatapatha Brāhmaṇa, I, 7, 4, 9). Lo si chiama Śiva (il benevolo), Hara (il distruttore), Shaṃkara (il salvatore), Mahādeva (il grande Dio); o anche il Signore delle bestie sevatiche (Śatapatha Brāhmaṇa, XII, 7, 3, 20).
Alain Daniélou[5] nota che il termine sanscrito śiva (aggettivo: propizio, favorevole, benefico) sia proprio, ed esclusivamente, di Rudra, il cui nome si aveva paura di pronunciare. Ciò conferma dunque l'ipotesi che il dio Śiva altro non sia che l'evoluzione del dio vedico Rudra, ipotesi sulla quale concordano altri studiosi:
La figura di Śiva come Dio supremo e poliedrico, possessore di una elaborata mitologia e portatore di una metafisica sofisticata, quale oggi è riconosciuto presso i maggiori culti dell'induismo, prende finalmente corpo e si afferma coi Purāṇa[13], quei testi religioso-filosofici che espongono cosmologia e filosofia hindu attraverso le narrazioni delle storie, testi messi nero su bianco all'incirca fra il III e il XII secolo CE.
Questo Śiva è il risultato di una progressione lenta ma inesorabile, un'evoluzione in cui le caratteristiche del dio hanno finito per inglobare quelle di molti altri dèi, come Agni, dio del fuoco, o Indra, Re del pantheon vedico. La funzione distruttrice di Rudra si erge ora a dimensioni cosmiche: Śiva non è più il collerico Rudra che nei Veda era implorato affinché non uccidesse uomini e bestiame: è il Grande Dio (mahādeva) che distrugge l'intero universo, è Colui che salva il mondo ingoiando il veleno negli albori del tempo (nīlakaṇtha), è Colui che domina i cinque elementi (panchānana).
L'appellativo Mahādeva è frequente nel Mahābhārata, dove Śiva è descritto come un dio che suscita inquietudine, il cui accedere al devoto è descritto non come semplice apparizione ma invasamento, possessione (āveśa, termine che poi ricorrerà nello śivaismo kashmiro).
La figura di Śiva nel corso del tempo ha assunto valori e sembianze diverse, incarnando vari aspetti e significati, a volte in palese contraddizione tra di loro. Egli è il più calmo e perfetto tra gli asceti (mahāyogin), ma è anche lo sfrenato e sensuale danzatore cosmico (naṭarāja); è la forza che dissolve e distrugge i mondi, ma anche quella che li rigenera, li preserva e li sostiene; è lo spietato genitore che taglia la testa al figlio, ma anche colui che accettò di bere un veleno per salvare l'umanità.
Questa tipica tendenza induista a racchiudere in un'unica figura concetti tra loro opposti e complementari, rende difficile – se non impossibile – descrivere unitariamente tutti i significati di cui Śiva è portatore, e quindi si rende necessario trattare ogni aspetto singolarmente. Va comunque aggiunto che sarebbe riduttivo vedere in Śiva un coacervo di divinità o una mera coesistenza di opposti, anzi:
« Śiva non accosta specularmente gli estremi, ma li divarica, incarnandosi provvisoriamente nell'eccesso, incombendo su ogni mediazione, scindendo ogni univocità. Al di là ed entro ogni forma Śiva è ultimamente pura e totale Energia, scintilla che proietta le infinite coppie di poli tra cui si genera. »
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